Alla ricerca della bellezza perduta
MONICA LANFREDINI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 07 novembre 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]
La bellezza esiste se qualcuno la riconosce e, con la sua ammirazione e il
suo rispetto, la indica agli altri, consentendo alla facoltà di vederla nelle
persone e nel mondo, insita nel cervello, di rivelarsi[1]. Queste parole, che ci ricordano la
relatività di una categoria trattata spesso come un assoluto, esprimono in
sintesi sia la natura di dimensione reale che nasce e vive per riconoscimento
percettivo sia la funzione rivelatrice ed educativa del mostrare il bello come
fa un genitore che indica a un bambino la bellezza di un tramonto, o un esteta
che richiama l’attenzione su un capolavoro ignorato[2]. Chi riconosce e mostra la bellezza
a quanti non riescono o non sanno più vederla? Il problema del presente
sembra proprio essere la progressiva, lenta ma inarrestabile, perdita di sensibilità
etico-estetica e di interpreti che la coltivino come valore di vita da
trasmettere alle generazioni future.
È paradossale, ma è così: a giudicare dalle testimonianze artistiche del
passato, nel nostro paese si viveva di bellezza; oggi, nell’epoca della civiltà
dell’immagine, la bellezza si perde. Ma il paradosso è solo apparente perché,
come abbiamo appreso dallo studio condotto per il seminario sull’Arte del Vivere,
se la forma, sia percettiva sia ideale, costituisce il mezzo
fondamentale di rappresentazione della bellezza nella nostra mente, è la
sostanza del suo valore che ci consente di renderla parte della nostra
vita. Ed è proprio il deficit di sostanza empirica, emozionale, culturale e
spirituale che ha causato nel tempo presente il venir meno della motivazione e
del desiderio a cercare, creare e condividere bellezza.
Intanto, mentre siamo idealmente alla ricerca della bellezza perduta,
tentiamo di comprendere cosa nel mondo che ci circonda abbia preso il posto di
quella tensione ideale che i Greci antichi chiamavano kalokagathίa
(lett.: bellezza-bontà) e che indicava, allo stesso tempo, il bello quale manifestazione
visibile del buono e il bene quale condizione metafisica della bellezza[3].
La scorsa settimana ho scritto pressappoco che, quando la pittura ha
abbandonato il realismo figurativo rompendo con i valori della tradizione accademica,
il testimone della produzione di immagini del vero è virtualmente passato alla
fotografia e al cinema. Ma, se numerosi fotografi e registi non hanno fatto
mistero di ispirarsi a grandi artisti del passato, cercando di riprodurre le
atmosfere create dalla luce, dalle ambientazioni, dalle pose dei personaggi e
dal cromatismo di opere pittoriche che sono entrate nell’immaginario di intere
generazioni o, talvolta, dal raffinato linguaggio di piccoli capolavori noti
solo a ristrette élite di cultori, si deve prendere atto che lo sfondo culturale
nel frattempo è profondamente mutato.
Se, considerando solo la dimensione delle immagini in quanto tali possiamo
facilmente cavarcela dicendo che il cinema e la fotografia hanno una propria
estetica, paragonando i contenuti della figurazione pittorica alla narrazione
cinematografica non possiamo ignorare il profondo mutamento di valori, che va
ben oltre lo strappo della pittura con la tradizione accademica e non è limitato
ai costumi e agli stili sociali, ma riguarda un vero e proprio cambiamento
antropologico che ha investito la concezione dell’essere nell’ultimo secolo.
Non vado oltre in questo spunto di analisi filosofica, che lascio
volentieri alla competenza del nostro presidente, ai cui scritti rimando per le
motivazioni documentate di queste mie affermazioni, qui voglio solo notare che
se il bello come dimensione rappresentativa del buono rimane, cosa sia “buono”
non è più definito in modo semplice secondo una comune radice di valori
trascendenti, come era nel passato – anche se spesso si declinavano le forme
sociali dell’astrazione condivisa in una dicotomia di varianti contrapposte, che
nella storia vanno dai guelfi e ghibellini ai monarchici e repubblicani – ma è
sviluppato in una varietà eterogenea e polimorfa di isole sociali,
apparentemente tenute insieme da opportunità, convenienze, leggi, convenzioni e
tradizioni.
Nell’antichità classica la responsabilità di stabilire cosa fosse buono
era affidata alle autorità filosofiche; presso il popolo Ebraico, come presso i
cristiani, il buono si identifica con Dio stesso; dalla sintesi neoplatonica
tra le tesi delle autorità filosofiche antiche e la morale cristiana, nascono i
principali valori etici posti alla base del mondo occidentale e oggi diffusi anche
in gran parte di quello orientale.
Invece, all’interno delle isole sociali di oggi, troviamo le rappresentazioni
più disparate di ciò che è buono per la collettività, ossia il bene comune da
contrapporre al male. In Olanda, alcuni anni fa, si è presentato alle elezioni
il partito politico dei pedofili, che sosteneva la priorità di una legge che consentisse
la violenza sessuale sui bambini da parte di persone adulte, in realtà affette
da un disturbo neuropsichico, ma che avrebbero dovuto, per legge, essere
dichiarate normali ed esemplari per la popolazione.
Accade anche che dei gruppi presenti in tutto il mondo, sostenuti dal business
internazionale della vendita dell’armamentario per le torture, abbiano diffuso,
come se fosse un costume sessuale particolare ma normale, il comportamento
patologico di sadici e masochisti, che sono affetti da un’alterazione cerebrale
che non consente loro di provare piacere nel rapporto fisiologico. Coloro che
irresponsabilmente nei media continuano a prendere le difese di questo ed altri
simili costumi, devianti rispetto all’istinto dell’accoppiamento e offensivi
per i sentimenti religiosi di molti, non tengono conto del fatto che la diffusione
nella popolazione e la pratica di simili comportamenti promuove la commissione
di reati.
In molti paesi vi sono gruppi che, come gli psicotici, trasformano i fatti
in opinioni infondate e sotto l’etichetta di negazionisti – che
di fatto autorizza questo scempio di logica, buon senso e civiltà – investono
tempo e danaro per diffondere la menzogna che il massacro nazista degli ebrei
non sia esistito. Meno grave in termini morali, ma pericolosissimo in un mondo
di emulatori poco inclini a usare le capacità cognitive di critica e giudizio
ma sempre propensi a seguire le mode, il movimento contro i vaccini, che
attribuisce senza alcun fondamento a questo presidio, che letteralmente salva
la vita di milioni di bambini in tutto il mondo, la responsabilità delle più
disparate malattie, dall’autismo alle patologie neurodegenerative, ovviamente
scegliendo i processi patologici per i quali non si conosce una causa unica o
ben definita.
In ambito animalista vi sono estremisti che sostengono che la vita degli
animali valga più di quella umana; come a dire: per salvare i topi di fogna
sacrifichiamo i nostri figli. E che dire di quei movimenti che in passato
lottavano per combattere la fame nel mondo e ora concentrano i loro sforzi per
ottenere l’autorizzazione all’eutanasia e la legalizzazione di varie droghe? Come
se non vi fossero già abbastanza minacce per la salute di tutti.
All’interno di queste isole, accanto a stili antropologici riportabili a
definite culture, spesso sono rappresentate tesi che, almeno teoricamente, riconcepiscono
del tutto l’uomo. In realtà, nella massima parte dei casi si tratta di “rappresentazioni
sociali” alle quali viene data forza mediatica e conseguente potere contrattuale,
ma sono interpretate da persone non di rado superficiali e ignare che la loro
adesione di comodo a uno stile di vita sia considerata e imitata alla stregua
di una scelta religiosa o filosofica. I grandi produttori cinematografici in
genere concepiscono il “bacino di utenza” al quale si rivolgono come un insieme
di lobbies, ciascuna delle quali rappresenta idee alle quali è possibile
ispirare il prodotto cinematografico.
Per esemplificare la diversità di valori che in differenti lavori cinematografici
possono essere espressi implicitamente, supponendone la condivisione con lo spettatore,
mi soffermerò brevemente su due film non recenti, ma assurti a modello negli
anni successivi, prodotti negli USA, diffusi in tutto il mondo e giunti quasi
contemporaneamente nelle sale cinematografiche nel 1992: Basic Instinct e Codice d’onore.
Basic Instinct è stato considerato un evento nella
cinematografia internazionale e ha influenzato il gusto, gli orientamenti e le
scelte di molti registi, attori e produttori in tutto il mondo.
Focalizziamo l’attenzione sui personaggi principali. Catherine (Sharon
Stone), scrittrice psicologa, è una pluriomicida e sono assassini anche molti
suoi amici; fa uso di cocaina, ha una stabile relazione sessuale lesbica, ma contemporaneamente
ha rapporti con uomini, che a volte uccide. Roxy, la
sua amante saffica, è anche lei una criminale, che ha ucciso i suoi due fratelli.
Il detective Nick (Michael Douglas), che ha ucciso, sia pure accidentalmente,
due turisti, ha fatto uso anche lui di cocaina, è un violento con tendenze
sadiche, posto sotto controllo psichiatrico per conto della polizia, che lo fa
seguire dalla psicologa Beth (Jeanne Tripplehorn),
una sua ex compagna. Per completare il quadro, il regista ci mostra Nick che
violenta Beth contronatura, nonostante lei lo supplichi di fermarsi, in una
scena che rende spregevole il protagonista maschile agli occhi dello spettatore
e si annovera fra le più brutte della storia del cinema.
Dov’è la bellezza? Nel volto di Sharon Stone. Se il volto angelico di una
giovane attrice sia sufficiente a rendere quest’apologia di crimini e miserie
umane meno che avvilente e disgustosa, sta al pubblico deciderlo[4]. È bello il parco da
multimiliardari della villa in cui vive Catherine? No, per molti non lo è.
Perché? Perché sa di artificiale, di finto, come sono finti i modi, i gesti e
le espressioni di chi si rapporta con il mondo al solo scopo strumentale di
soddisfare istinti e perversioni.
Per certo, il regista e l’autore del soggetto rappresentano una concezione
della bellezza quale esteriorità evocatrice, strumentalmente al servizio di
istinti sessuali incontrollati, pulsioni patologiche e tendenze criminali,
presentate come normalità ordinaria.
Sul viso di Sharon Stone si regge anche la famosa scena dell’interrogatorio
durante il quale, accavallando le gambe, l’attrice mostra per un istante una
nudità a stento percettibile. Una scena che, se non si sta al gioco del
regista, perde valore per almeno due buone ragioni.
La prima è la plausibilità reale: non è certo verosimile che rimangano
irretiti per aver intravisto qualcosa dei poliziotti di mezza età in una città come
San Francisco dove le giovani donne drogate che vanno per strada seminude, come
prostitute occasionali per procurarsi i soldi di una dose, si incontravano e si
incontrano a tutte le ore del giorno, su ogni cablecar,
in ogni bar e ad ogni angolo di strada; dove d’estate basta andare sulla Taylor
street per vedere in giro persone letteralmente nude, sia per eccentricità
che per motivi di naturismo[5].
La seconda è il richiamo erotico sullo spettatore: senza il fascino e il potere
evocativo del volto e delle sue espressioni, che effetto avrebbe potuto fare mostrare
a stento per un attimo, nella penombra di un’oscura e disadorna stanza d’ufficio
della polizia, quel poco che si poteva scorgere da un breve divaricare le
gambe? Il pubblico era già abituato da tempo a scene di nudo integrale, anche
in film con target familiari; si pensi a quei discutibili prodotti del genere
detto “commedia sexy all’italiana”, con primi piani in piena luce di seni e
pudenda di attrici più o meno note.
Ma l’ultima considerazione, sulla scena e sul film in generale, la merita
un artificio allusivo che ritengo possa essere assunto come metonimia di una
concezione. Il gioco si basa sull’indeclinabilità dell’aggettivo in inglese e,
in particolare, sulla mancanza di concordanze di genere. Durante l’interrogatorio,
Catherine rompe la regola implicita e rivolge lei una domanda a Nick, che è tra
gli inquirenti, chiedendogli se lo ha mai fatto “on cocaine”, a questo punto
divarica le gambe e poi dice: “It’s nice”, che va ugualmente bene per ciò che ha mostrato e per
riferirsi al far l’amore avendo assunto la sostanza psicotropa neurotossica.
Codice d’onore. Anche se la vicenda è tutta
interna alla realtà militare dei marines, il codice di valori in background
è quello della migliore tradizione originata dall’incontro di cultura laica e
religiosa: qui gli eroi della storia non sono delinquenti dediti al vizio e al
crimine, ma persone capaci di rischiare di persona per veder trionfare la
giustizia.
La trama, ispirata liberamente a fatti reali abilmente reinterpretati da
Aaron Sorkin, narra di un giovane avvocato della
marina degli Stati Uniti, tenente Daniel Kaffee (Tom
Cruise), incaricato di formare un collegio di difesa davanti alla corte
marziale per due marines accusati dell’omicidio di un commilitone. L’establishment
aveva già di fatto deciso la condanna dei due imputati e, per evitare rischi,
aveva dato l’incarico a un giovane considerato inesperto e incapace di creare
problemi al procuratore militare. Kaffee scopre che i
due accusati erano stati incaricati dal comandante Nathan Jessup
di eseguire un “codice rosso”, ossia un provvedimento di punizione corporale
non ufficiale, nei confronti di Santiago, e che quest’ultimo era morto, non
perché avvelenato dai commilitoni imputati, ma perché affetto da una
coronaropatia che non gli aveva consentito di superare lo stress ipossico della
punizione.
Nel corso della vicenda dibattimentale, il tenente comandante Joanne Galloway (Demi Moore) sarà una coadiutrice ottima di Kaffee, suggerendogli anche la soluzione per l’ultimo
apparentemente insormontabile ostacolo. Demi Moore rende con un’interpretazione
impeccabile la sensibilità e lo stile di una donna saggia e tenace che,
nonostante i sentimenti che prova per Kaffee, riesce
a far prevalere la professionalità del ruolo, mettendo al primo posto la
missione di giustizia che stavano compiendo.
La tensione morale alla ricerca del vero colpevole, ossia il comandante della
Base di Guantanamo Nathan Jessup (Jack Nicholson) che
aveva dato l’ordine a cui i due imputati non avrebbero potuto disobbedire,
consente a Daniel Kaffee di superare la paura delle gravi
ritorsioni cui sarebbe potuto andare incontro e, con un’astuzia psicologica in
sede di interrogatorio, induce il comandante a confessare.
Durante la lavorazione del film, gli attori che interpretavano i membri del
collegio difensivo si sono così immedesimati nei valori di giustizia, lealtà,
onestà e rispetto, da vivere un’esperienza di bellezza che hanno cercato di conservare.
Esaminando il “girato”, si resero conto di aver sviluppato una sorta di
dimensione estetica corrispondente alla tensione etica interiore. Demi Moore e
Tom Cruise avevano una scena d’amore che, a quel punto, a loro è sembrata
stridere con lo stile che avevano conferito ai personaggi e, pertanto, chiesero
al regista di eliminarla. Così, di comune accordo, la scena fu abolita.
Riflettendo sul cinema, non posso esimermi dal considerare, anche se
brevemente, il film di Paolo Sorrentino vincitore dell’Oscar: La grande
bellezza. Le riflessioni autobiografiche di Jep Gambardella,
un cronista di costume e critico teatrale che da giovane ha scritto un libro,
fanno da filo conduttore a vicende che accadono a una ridda di personaggi che
appaiono, sulla scena della grande bellezza di Roma, nella superficialità vuota
della loro vita mondana, in contrasto impietoso con una grandezza alla quale,
sia pure in tanti modi diversi, sono totalmente estranei. Il protagonista, che
giunto a Roma a 26 anni ed entrato “nel vortice della mondanità” vi è rimasto fino
alle soglie della vecchiaia aderendo a modi di vita rappresentata più che
vissuta, fa un riesame critico di tutta la sua esistenza e decide di tornare
alla scrittura. Ma non vi riesce e dichiara: “Mi chiedono perché non ho più
scritto un libro. Ma guarda qua attorno. Queste facce. Questa città, questa
gente. Questa è la mia vita: il nulla. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul
nulla e non ci è riuscito: dovrei riuscirci io?” E poi: “Ho cercato la grande
bellezza e non l’ho trovata”.
A mio avviso proprio queste frasi, che rendono in maniera efficace l’atteggiamento
di molti, rivelano le ragioni di una ricerca infruttuosa: c’è il nulla perché
tutti, come lui, aspettano la bellezza dagli altri, senza capire che se tu non la
crei la bellezza, se tu non la vivi come stile di pensiero, non la troverai mai
nel mondo intorno a te.
Si può anche dire che se uno spera di trovare la bellezza nella mondanità, che
è per definizione socializzazione nell’esteriorità rappresentativa, nei facili
guadagni del successo o in quella vita notturna che è popolata di gente alla
ricerca del piacere e in fuga dalla realtà e dalle responsabilità, non la
troverà mai. Non la cerca nei luoghi giusti. Il primo luogo dove cercarla, con
la disposizione al ciceroniano invenio che, se
necessario, si fa invento, è dentro di sé.
Le frasi del nostro presidente con le quali ho introdotto queste
riflessioni ci consentono di comprendere bene perché il Colosseo, il Panteon, il
Mosè, Villa Giulia, la Cupola di San Pietro, le Stanze Vaticane, la Sistina, la
Pinacoteca Vaticana, le oltre novecento chiese monumentali di Roma, ma anche
tutti gli altri monumenti e le altre opere d’arte del mondo, richiedono che
qualcuno riconosca e mostri la loro bellezza: perché se la forma è svuotata della
sostanza costituita dall’attualità umana che le dà vita, si riduce a simulacro di
sé stessa.
L’autrice della
nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla
lettura degli scritti di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Monica
Lanfredini
BM&L-07 novembre 2020
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Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Giuseppe Perrella, La
bellezza: essenza di un valore che supera le concezioni ideali, p. 5,
BM&L-Italia, Firenze 2019-2020 [Testo di un discorso introduttivo per un incontro
non più tenuto, causa coronavirus].
[2] Giuseppe Perrella, idem.
[3] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera
di Giovanni Paolo II agli artisti, §3: La vocazione artistica a servizio
della bellezza. Libreria Editrice Vaticana, Roma 1999.
[4] L’importanza del volto di Sharon
Stone, ventinovenne all’epoca delle riprese, sembra confermata dal fiasco di Basic
Instinct 2, proclamato tra il 2006 e il 2007 da
molte commissioni cinematografiche internazionali il peggior film della stagione
e Sharon Stone la peggiore attrice, pur avendo esibito una tecnica di
recitazione almeno pari a quella del primo film. A 15 anni di distanza, il viso
della Stone quarantaquattrenne era molto cambiato: aveva perso del tutto la
bellezza luminosa che le aveva dato fortuna nel cinema e, anche se non appariva
particolarmente invecchiata, aveva perso quell’elemento evocatore che compiva
una sorta di effetto magico sulla mente dello spettatore.
[5] Il naturismo è una pratica di vita che implica il nudismo, mentre quest’ultimo
è praticato anche da non naturisti. Il naturismo, sviluppato a Barcellona dal
1899 con la prima rivista del settore fondata dall’Italiano Nicola Capo, conta
circa 20 milioni di seguaci in Europa contro i 40 milioni presenti negli USA.
Si ricorda, per inciso, che negli USA, come in molti altri paesi del mondo, è
molto seguita una pratica di nudismo cristiano.